Permessi legge 104/1992 e licenziamento. Sentenza della Corte Suprema di Cassazione, sezione lavoro, 16 giugno 2021, n.17102.

Costituisce reato e giusta causa di licenziamento il comportamento del dipendente che sfrutta i permessi della legge 104 per svolgere attività non collegate all’assistenza del familiare disabile.

È una delle cause di licenziamento più frequenti quella dell’indebito utilizzo dei permessi legge 104/1992. L’abuso nell’utilizzo dei tre giorni, al mese, di assenza dal lavoro – peraltro retribuiti – si scontra con la finalità perseguita dal legislatore di prestare l’assistenza al familiare disabile. Di qui l’accertamento del comportamento illegittimo del dipendente che sfrutti tali agevolazioni per scopi personali come, ad esempio, dedicarsi ad attività personali, ricreative o comunque non attinenti alla cura del portatore di handicap.

Insomma, il binomio permessi legge 104/1992 e licenziamento è masticato di frequente nelle aule dei tribunali. I giudici sono arrivati alla seguente conclusione: è legittimo il licenziamento per giusta causa del lavoratore che, nel fruire dei permessi ex Legge 104/1992, sia sorpreso dall’agenzia investigativa a svolgere attività incompatibili e non direttamente correlati con l’assistenza del familiare disabile. Il comportamento del dipendente che si avvalga, infatti, di tale beneficio per soddisfare esigenze diverse integra l’abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell’Ente assicurativo.

Risultato, l’abuso dei permessi legge 104/1992 non solo configura una «giusa causa» di licenziamento, dando così luogo all’immediata risoluzione del rapporto di lavoro, senza neanche preavviso (ciò che comunemente viene chiamato «licenziamento in tronco») ma può dar luogo anche a un procedimento penale, quello di truffa ai danni dell’Inps. Perché è pur sempre l’Inps che paga la retribuzione al dipendente assente durante i tre giorni al mese, seppur in prima battuta anticipata dal datore di lavoro.

Questo, ben inteso, non significa che il dipendente debba passare l’intero arco delle 24 ore a casa del familiare disabile. L’utilizzo dei permessi è ben compatibile con le attività di carattere personale, nei limiti però della correttezza: queste cioè devono innanzitutto soddisfare le esigenze primarie del lavoratore (si pensi a chi necessita di fare la spesa, comprare le medicine in farmacia, prendere i figli a scuola, ecc.) e, in secondo luogo, non possono assumere un carattere preponderante nella giornata. Insomma, si può uscire, di tanto in tanto, e per brevi frazioni di tempo: l’importante è non snaturare la funzione dei permessi 104 che, come detto, è quella di garantire un’assistenza al portatore di handicap.

Non è neanche corretto ritenere che l’attività di assistenza debba essere principalmente prestata nelle ore lavorative. In pratica, il lavoratore potrebbe essere costretto a stare con l’assistito anche in momenti della giornata normalmente non dedicati al lavoro.

Sul punto, la Cassazione ha affermato che: «l’assenza dal lavoro per fruire di permessi ai sensi della L. 104/92 deve porsi in relazione causale diretta con lo scopo di assistenza al disabile con la conseguenza che il comportamento del dipendente che si avvalga, infatti, di tale beneficio per attendere a esigenze diverse integra l’abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell’ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari».

Permessi legge 104/1992 e licenziamento: i principi

Attesa l’elevata mole del contenzioso in materia, in tutti questi anni, la Cassazione ha formulato alcuni importanti principi. Li ribadiamo qui di seguito:

i giorni di permesso non servono al dipendente per riposarsi o per fare ponte, ma per dedicarsi all’assistenza del portatore di handicap. Lo scopo è, quindi, rivolto a tutelare le persone disabili e non i lavoratori. Questo significa che le tre giornate di assistenza che possono essere usufruite in un mese vanno trascorse presso il domicilio del familiare titolare della legge 104. Ciò nonostante, a seguito di una modifica intervenuta nel 2010, sono stati aboliti i requisiti della “continuità ed esclusività” dell’assistenza per fruire dei permessi mensili retribuiti. Sicché, non è necessario trascorrere tutte le 24 ore insieme al portatore di handicap;

la legge, quindi, non implica un’assistenza continuativa di 24 ore, per la semplice ragione che, durante le ore lavorative, il lavoratore non può contemporaneamente assistere il parente. È evidente, quindi, che la locuzione [«assistenza in via continuativa»] va presa con le pinze, nel senso che è sufficiente che sia prestata con modalità costanti e con quella flessibilità dovuta anche alle esigenze del lavoratore;

nei giorni dei permessi legge 104/1992, il lavoratore è libero di graduare l’assistenza al parente secondo orari e modalità flessibili che tengano conto, in primis, delle esigenze del disabile; il che significa che nei giorni di permesso, l’assistenza, sia pure continua, non necessariamente deve coincidere con l’orario lavorativo, proprio perché tale modo di interpretare la legge andrebbe contro gli stessi interessi del portatore di handicap (come ad es. nelle ipotesi in cui il disabile abbia bisogno di minore assistenza nelle ore in cui il lavoratore presta la propria attività lavorativa). Leggi sul punto “Permessi retribuiti dal lavoro 104: abrogata l’assistenza continuativa“;

il dipendente può ben dedicare una parte della giornata di permesso, accordato dall’azienda, anche a finalità diverse dall’assistenza del disabile. L’importante è che questa attività non diventi preponderante nell’arco della giornata, ma risulti confinata a semplici momenti brevi (ad esempio, i classici 30 minuti per fare la spesa o ritirare le medicine in farmacia). Leggi sul punto “Permessi 104 anche per attività extra assistenziali“;

se il lavoratore che ha usufruito dei permessi previsti dalla legge 104 è stato a casa del familiare per un numero di ore superiore a quelle dell’orario di lavoro, allora l’azienda non può contestargli il fatto che sia uscito per svolgere delle incombenze personali. Illogico, di conseguenza, parlare di abuso dei permessi, pur essendosi il lavoratore dedicato anche ad attività non correlate direttamente con l’assistenza del familiare. La logica è quella di consentire a chi durante l’arco della normale settimana, nel dopo-lavoro, si occupa del familiare in difficoltà, di poter attendere anche alle proprie necessità che, altrimenti, gli sarebbero precluse. Ed allora ben venga se, durante i giorni di permesso, il lavoratore fa la spesa per sé o si occupa di altre esigenze personali. Leggi “Legge 104: cosa non si può fare“.

Controllo dipendente per abuso permessi legge 104

Sulla possibilità di controllo sull’uso illegittimo dei permessi 104, è ammessa la prova fotografica costituita dagli scatti fatti da un investigatore privato o anche da uno stesso collega di lavoro che abbia sorpreso il lavoratore per strada. Certo, il semplice scatto non dice molto: non rivela cioè se l’uscita è stata occasionale e per un breve lasso di tempo, cosa – come anticipato – del tutto compatibile con l’uso dei permessi 104. Ecco perché l’ausilio del detective è quasi indispensabile: questi si metterà alle calcagna del dipendente e ne verificherà le mosse, accertando anche i tempi in cui questi si assenta da casa.

La Corte di Cassazione ritiene legittimo il controllo dell’azienda sui propri dipendenti tramite gli investigatori, laddove lo stesso sia diretto non a verificare le modalità di adempimento della prestazione lavorativa, quanto, invece, l’utilizzo illecito dei permessi usufruiti dagli stessi ai sensi della L. 104/92.

Note:

[1] Cass. Sez. Lav., 16 giugno 2021, n. 17102.

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