Parcelle avvocati: via libera al procedimento di ingiunzione.

Condivisa dalle Sezioni Unite della Cassazione la tesi del COA di Roma: il D.L. n. 1/2012 non ha infatti abrogato il procedimento di ingiunzione di cui agli artt. 633 e 636 c.p.c.

In tema di liquidazione del compenso all’avvocato, l’abrogazione del sistema delle tariffe professionali avvenuta a seguito del D.L. n. 1/2012, convertito dalla L. 27/2012, non ha determinato l’abrogazione i del procedimento per ingiunzione regolato dagli artt. 633 e 636 del codice di procedura civile.

Gli avvocati potranno dunque ancora avvalersi del procedimento monitorio, in luogo del giudizio ordinario o del rito sommario di cognizione, per vedersi riconosciuto il proprio diritto, ponendo a base del ricorso la parcella di spese e prestazioni, validata dalla competente associazione professionale, il cui parere verrà rilasciato in base ai parametri professionali di cui alla L. 247/2012 e dei relativi decreti ministeriali attuativi.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione a Sezioni Unite nella sentenza n. 19427/2021, bocciando la linea seguita dal Tribunale di Roma e confermando invece quanto sostenuta dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati della Capitale.

In dettaglio, la pronuncia del Supremo consesso nomofilattico è stata sollecitata dal Procuratore generale presso la Corte di Cassazione affinché venissero enunciati i principi di diritto ai quali il Tribunale di Roma avrebbe dovuto attenersi nel procedimento monitorio azionato da un avvocato per ottenere il pagamento di compensi per prestazioni professionali.

A sostegno della sua richiesta il Procuratore ha esposto di aver ricevuto una segnalazione da parte di un avvocato, seguita da una nota del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma, con le quali si informava l’ufficio della Procura dell’esistenza di un orientamento del Tribunale di Roma in virtù del quale, in quell’ufficio, i ricorsi per decreto ingiuntivo, presentati a partire dal 2012 per la liquidazione dei compensi di avvocato in materia giudiziale e stragiudiziale civile, erano rigettati, nonostante fossero corredati da prova documentale dell’attività svolta e dal parere di congruità reso dal competente COA.

Indirizzo che, secondo gli esponenti, appariva “isolato e non condivisibile”, fondato sull’erronea premessa che la disposizione dell’art. 636 c.p.c. fosse stata abrogata in conseguenza dell’eliminazione del sistema tariffario, avvenuta con L. 27 marzo 2012, n. 27.

Viene dunque chiesto alla Cassazione dal Procuratore Generale l’enunciazione di un principio di diritto nell’interesse della legge, in particolare dopo aver riscontrato un indirizzo opposto praticato in altri grandi tribunali italiani (Torino, Napoli e Palermo), con l’obiettivo dunque di superare i contrasti interpretativi e uniformare l’applicazione della legge sul territorio nazionale.

Gli Ermellini rammentano come la L. 247/2012, recante “la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”, all’art. 13 e in linea di continuità con la L. n. 27/2012 (art. 9), abbia disposto l’abolizione tout court delle tariffe professionali, rinviando a successivi decreti ministeriali l’individuazione di “parametri” per la determinazione ovvero per la liquidazione in giudizio dei compensi dei professionisti.

È stata poi ribadita la regola che i parametri si applicano quando non vi è una pattuizione tra le parti (art. 13, comma 6). Per gli avvocati i parametri sono stati poi introdotti con il D.M. 10 marzo 2014, n. 55 e, a differenza delle tariffe, non distinguono più tra diritti e onorari, ma accorpano in fasi distinte la molteplicità delle attività compiute dal professionista

Sotto il profilo intertemporale, spiega la Corte, può dirsi ormai dato acquisito il principio secondo cui “i nuovi parametri sono da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso di un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorché tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta in epoca precedente, quando ancora erano in vigore le tariffe professionali abrogate”.

Ne deriva, prosegue la sentenza, che le tariffe abrogate possono trovare ancora applicazione qualora la prestazione professionale di cui si tratta si sia completamente esaurita sotto il vigore delle precedenti tariffe. Deve invece applicarsi il D.M. n. 140/2012 con riferimento a prestazioni professionali (iniziatesi prima, ma) ancora in corso quando detto decreto è entrato in vigore ed il giudice deve procedere alla liquidazione del compenso (cfr. Cass. Sez. Un. n. 17405/2012; cfr. anche Cass. Sez. Un. n. 23318/2012; Cass. n. 17577/2018).

Forte analogia tra tariffe abrogate e nuovi parametri

Per la Cassazione appare evidente “come tra le tariffe abrogate e i nuovi parametri corra una forte analogia se non una sostanziale omogeneità”.

Tanto le tariffe quanto i parametri funzionano, infatti, come criteri integrativi della remunerazione professionale e devono rispettare criteri che tengano conto dell’onore e del decoro della professione, delle caratteristiche, dell’urgenza e del pregio dell’attività prestata, nonché di tutti gli altri elementi indicati nell’art. 4 del D.M. 55/2014. Ancora, al pari delle tariffe, anche i parametri devono tener conto del valore delle singole controversie.

Tale equiparazione non finisce per reintrodurre surrettiziamente le tariffe, in violazione delle norme euro unitarie: la Corte di giustizia, infatti, ha ritenuto la disciplina nazionale in tema di minimi e massimi tariffari conforme al sistema comunitario (Corte di giustizia 19 febbraio 2002, n. 35, Arduino, C-35/99).

Le Sezioni Unite ritengono che anche i parametri, non diversamente dalle tariffe, operino come fonte sussidiaria e suppletiva, alle quali è dato ricorrere, in forza delle disposizioni speciali, nonché dell’art. 2233 c.c., nella liquidazione giudiziale dei compensi al professionista nel caso in cui non risulti stipulato con il cliente un accordo sul compenso medesimo o sorga una lite tra le due parti del rapporto. Analogo potere è riconosciuto al giudice in caso di compenso pattuito nell’ambito delle speciali convenzioni disciplinate nell’art. 13 bis L. n. 47/2012, qualora il giudice lo ritenga “non equo”.

In definitiva, la tesi secondo cui lo smantellamento del sistema tariffario avrebbe comportato l’abrogazione tout court delle norme che lo richiamano, e in particolare delle norme del codice di rito, non è sorretta da alcun indice normativo e neppure da validi criteri ermeneutici.

Seguendo la tesi avversata, sottolinea il Collegio, si dovrebbero ritenere abrogate una serie di disposizioni della cui attuale vigenza non è dubitabile (ad es. art. 75 disp. att. c.p.c., in tema di deposito della nota spese; l’art. 82 D.P.R. n. 115/2002 in tema di liquidazione dell’onorario in favore del difensore della parte ammessa al gratuito patrocinio; l’art. 1709 c.c. relativo al compenso del mandatario e, soprattutto, gli artt. 2225, 2233 c.c.).

Effetto abrogativo limitato

Si arriverebbe così al “conseguente effetto paradosso di privare il giudice del ruolo che l’ordinamento espressamente gli attribuisce nella determinazione del compenso, in funzione di garanzia per entrambe le parti del contratto di prestazione d’opera intellettuale”.

In altre parole, l’effetto abrogativo deve ritenersi limitato solo alla parte in cui la norma rinvia alla fonte di rango inferiore ormai soppressa, lasciando per il resto in tutto e per tutto inalterata la relativa struttura: la previsione del diverso criterio di liquidazione dei compensi, costituito dai parametri, comporta l’effetto sostitutivo dell’elemento abrogato con il nuovo sistema, ritenuto dal legislatore più congruo e agevole rispetto al precedente.

La previsione, inoltre, del potere-dovere del consiglio dell’ordine degli avvocati di rilasciare il parere di congruità sulla pretesa dell’avvocato, in relazione all’opera prestata, come contenuta nel comma 9 dello stesso art. 13, ricompone la norma di cui agli artt. 633, comma 1, n. 2 e 636 c.c. nei suoi elementi essenziali e ricostruisce il procedimento monitorio puro nei termini di equipollenza prova scritta-parcella, ferma restando la necessità del parere, surrogabile solo da tariffe obbligatorie (nei limiti su indicati).

Accogliendo la richiesta del Procuratore generale, gli Ermellini formulano dunque una serie di principi di diritto.

In primis, si chiarisce che “in tema di liquidazione del compenso all’avvocato, l’abrogazione del sistema delle tariffe professionali per gli avvocati, disposta dal D.L. n. 1/2012, convertito dalla L. n. 27/2012, non ha determinato, in base all’art. 9 D.L. cit., l’abrogazione dell’art. 636 c.p.c.”.

Pertanto, anche a seguito dell’entrata in vigore del detto provvedimento, “l’avvocato che intende agire per la richiesta dei compensi per prestazioni professionali può avvalersi del procedimento per ingiunzione regolato dagli artt. 633 e 636 c.p.c., ponendo a base del ricorso la parcella delle spese e prestazioni, munita della sottoscrizione del ricorrente e corredata dal parere della competente associazione professionale, il quale sarà rilasciato sulla base dei parametri per compensi professionali di cui alla L. 31 dicembre 2012, n. 247 e di cui ai relativi decreti ministeriali attuativi”.

Sull’annosa questione dei compensi per l’attività professionale degli avvocati, le Sezioni Unite premiano la tenacia del COA Roma, accogliendo così la tesi da tempo sostenuta che ritiene possibile seguire la via del procedimento monitorio per il riconoscimento del proprio diritto.

“Una sentenza, questa, che ci rende orgogliosi – commenta Antonino Galletti, Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Roma – perché vede il COA, anziché lasciarsi andare ad inutili e sterili proclami o lagnanze, indicare una strada giuridicamente corretta ed ottenere in pochi mesi un risultato concreto del quale beneficerà non soltanto la famiglia forense romana, ma l’intera avvocatura italiana”.

Un plauso va alla proficua e costane interlocuzione con gli uffici giudiziari e, in particolare, con il Procuratore Generale dott. Giovanni Salvi, ex Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma, che ha consentito di raggiungere tale soluzione definitiva.

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