Colpa medica: le condanne devono tener conto delle linee guida.

Sentenza della Corte Suprema di Cassazione, quarta sezione penale, n. 24835/2021.

La Cassazione censura per difetto di motivazione il provvedimento di condanna penale per colpa medica che non faccia alcun cenno a linee guida, giudizio controfattuale e nesso di casualità

L’iter che i giudici devono seguire prima di pronunciare una condanna penale nei confronti del medico o del sanitario per responsabilità professionale richiede valutazioni complesse, con necessità di tener conto di una serie di elementi puntuali prima di poter giungere ad affermarne la colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio.

Valutazioni che non possono essere effettuate con leggerezza, essendo necessario che il provvedimento faccia riferimento alle linee guida e/o alle buone prassi assistenziali, operi un giudizio controfattuale, di legge applicabile e di grado della colpa, di nesso di causalità. Sul punto la Corte di Cassazione si è fortemente spesa nel corso degli anni con pronunce importanti che hanno fornito indispensabili elementi interpretativi e indirizzato i magistrati nel loro operato in ambito di colpa professionale medica.

Una simile modalità di analisi, con necessario approfondimento della vicenda in ogni aspetto, è indispensabile per evitare che i provvedimenti dei giudici di merito siano correttamente motivati, altrimenti gli stessi rischiano di essere censurati per difetto di motivazione.

Lo ha rammentato la Corte di Cassazione, quarta sezione penale, nella sentenza n. 24835/2021  pronunciandosi sul ricorso di un medico, specialista in chirurgia plastica ed estetica, condannato dal Giudice di Pace per il reato di lesioni personali colpose (art. 590 c.p.).

In particolare, il sanitario è accusato di non aver correttamente medicato la ferita di una diciassettenne (afflitta da ustioni da abrasione al dorso del piede) che si era recata in Ospedale per una visita di controllo. Le conseguenti complicanze infettive vengono dunque imputate alla negligenza, imprudenza, imperizia ed inosservanza delle leges artis del medico, che avrebbe in tal modo cagionato alla ragazza lesioni personali consistite nel prolungamento dello stato di malattia e nell’incapacità a svolgere le ordinarie occupazioni.

Condanna del medico e difetto di motivazione

Tuttavia, innanzi alla Corte di Cassazione, il sanitario lamenta il difetto di motivazione della sentenza che lo ha condannato, la quale appare a suo dire solo formalmente motivata. Al di là di mere formule di stile, infatti, nulla avrebbe affermato il giudice onorario in ordine alle numerose argomentazioni addotte dall’imputato a giustificazione della propria condotta.

Ad esempio, nella sua difesa il medico aveva richiamato tutte le linee guida nazionali e internazionali, nonché la letteratura medica mondiale, relative alle modalità di corretta rimozione della medicazione e dei casi in questa va evitata, a protezione della matrice dermica, per non frustrare il processo di cicatrizzazione cui la stessa è preposta.

E sarebbe stato quanto avvenuto nel caso di specie, in cui la paziente, al momento della visita, non presentava una situazione infettiva superiore alla normale proliferazione batterica esterna, che consegue alla semplice esposizione all’aria della ferita, da giustificare un simile intervento, essendo per lei sufficiente la sola pulizia della ferita e l’apposizione, come è stato fatto, di una pomata antibiotica.

In effetti, conferma la Cassazione, “il provvedimento impugnato presenta una motivazione del tutto apparente se non inesistente”. Il giudice di Pace si è infatti limitato ad affermare che “la penale responsabilità dell’imputato è risultata provata sulla base delle dichiarazioni testimoniali della persona offesa e della documentazione medica in atti”, senza aggiungere alcun elemento contenutistico relativo a tali mezzi di prova.

Responsabilità medica e contenuto delle sentenze di condanna.

Inoltre, senza rispondere in alcun modo alle argomentazioni difensive, né affrontandone contenuto e fondatezza, il giudice a quo si è limitato ad affermare apoditticamente che è “di solare evidenza” come “il comportamento dell’imputato non sia scevro di elementi rilevanti sotto il profilo della negligenza, imprudenza o imperizia, considerato che per configurare il delitto in esame è sufficiente una culpa et levissima”.

Aggiunge, infine, che “l’omessa pulizia della ferita e l’evidente ritardo nella impostazione di una idonea terapia hanno certamente cagionato quantomeno un prolungamento dello stato di malattia, elemento di per sé sufficiente per integrare il reato”.

La motivazione del provvedimento impugnato termina qui e, sottolineano gli Ermellini, “sconcertante appare che non si faccia cenno alcuno di linee guida e/o buone prassi assistenziali, di giudizio controfattuale, di legge applicabile e di grado della colpa, di nesso di causalità o di quant’altro questa Corte di legittimità, con una giurisprudenza decennale, ritiene necessario affinché possa operarsi una condanna penale, al di là di ogni ragionevole dubbio, in ambito di colpa professionale medica”.

La sentenza neppure motiva in alcun modo sul perché sia stato ritenuto superfluo l’accertamento peritale sollecitato dalla difesa stante il rilevato contrasto fra le conclusioni del consulente del P.M. e la documentata tesi del ricorrente, specialista clinico proprio nella materia di cui si tratta.

La perizia d’ufficio, secondo la difesa del medico, avrebbe potuto dirimere il contrasto sul corretto approccio in caso lesioni da ustione e, soprattutto, ai fini dell’applicazione della normativa di cui all’art. 6 della L. 24/17 , avrebbe consentito di stabilire se effettivamente il chirurgo si fosse o meno attenuto alle linee guida ed alle buone pratiche clinico assistenziale, o ancora, ai fini dell’applicazione – qualora più favorevole – dell’art. 3 della L. 189 /12, se nella fattispecie la sua condotta fosse stata eventualmente caratterizzata da colpa lieve.

Sul punto la sentenza impugnata nulla dice e, in conclusione, la Suprema Corte non può che annullare tale provvedimento, rinviando al Giudice di Pace affinché, in diversa composizione, effettui un nuovo giudizio.

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