Maltrattamenti in famiglia: c’è reato in convivenze brevi?

Quanto conta il legame «ufficiale» di una coppia o la durata del rapporto per poter applicare quanto previsto dal Codice penale?

Bisognerebbe partire da questa domanda: che cosa si intende per famiglia? Quella formata da una coppia unita in matrimonio davanti ad un sacerdote o ad un pubblico ufficiale del Comune? Quella che va ad iscriversi all’anagrafe come coppia di fatto? La risposta l’ha data in una recente sentenza la Cassazione che, per esteso, ha precisato anche quando una persona può essere condannata per maltrattamenti in famiglia: c’è reato in convivenze brevi? C’è, ha detto la Suprema Corte [1].

Non conta, dunque, quello che di solito viene chiamato «il pezzo di carta» che unisce una coppia in modo ufficiale sotto lo stesso tetto. Come non ha importanza la durata della convivenza. Sono altri, secondo i giudici supremi, i parametri da tenere in considerazione per dire che si incorre nel reato di maltrattamenti in famiglia. Vediamo quali, secondo la sentenza della Cassazione.

Maltrattamenti in famiglia: quando è reato?

Secondo il Codice penale [2], può essere accusato del reato di maltrattamenti in famiglia «chiunque maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte». La pena prevista in una di queste ipotesi è la reclusione da tre a sette anni.

Una pena che, però, aumenta fino alla metà nel caso in cui il fatto venga commesso con armi o in presenza o in danno di:

persona minore;

donna in stato di gravidanza;

persona con disabilità.

Se dal fatto deriva:

una lesione personale grave, la reclusione va da quattro a nove anni;

una lesione gravissima, la reclusione va da sette a quindici anni;

la morte, la reclusione va da dodici a ventiquattro anni.

Maltrattamenti in famiglia: esiste in una convivenza breve?

Il reato sopra esposto, cioè quello relativo ai maltrattamenti in famiglia, si può configurare non solo quando la coppia è sposata o registrata all’anagrafe come convivente di fatto ma anche quando esiste un rapporto saltuario, di breve durata. E uno può dire: quando si alzano le mani su un altro, o lo si discrimina o lo si minaccia, maltrattamenti sì, su questo non c’è dubbio. Perché «in famiglia»?

Secondo la Cassazione, non conta la tipologia di unione all’interno della coppia e nemmeno la durata della convivenza ma il fatto che in quel rapporto «sia sorta una prospettiva di stabilità e un’attesa di reciproca solidarietà».

Basterebbe, dunque, secondo questa sentenza, che due fidanzati abbiano affittato una casa insieme per provare l’esperienza della convivenza prima di impegnarsi ulteriormente con un matrimonio. Oppure che abbiano acceso insieme un mutuo per l’acquisto della loro prima casa, il che darebbe quella «prospettiva di stabilità» e di «reciproca solidarietà» di cui parla la Suprema Corte.

Ai giudici era arrivata la vicenda di un uomo imputato per il reato di maltrattamenti ai danni della donna con cui aveva una convivenza saltuaria «finalizzata per lo più – si legge nella sentenza – alla consumazione di rapporti sessuali». Già la Corte d’Appello aveva sentenziato che la stabilità della convivenza non era un requisito richiesto per l’accusa di maltrattamenti in famiglia. E la Cassazione non ha fatto altro che confermare questa linea.

Le indagini hanno appurato che tra l’uomo e la donna si era instaurato un legame affettivo «influenzato anche dalla intensa attività sessuale, con una convivenza dalla durata breve, incostante e più volte interrotta per poi essere ripresa ma significativa, per il mantenersi di una relazione di complicità».

La Corte Suprema tiene a sottolineare che quanto stabilito dal Codice penale sul reato di maltrattamenti in famiglia (cioè, quello che abbiamo riportato sopra) «si applica non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale». Non è necessario – insistono gli Ermellini – «che la convivenza abbia una certa durata»: quel che conta è la prospettiva di stabilità.

Note:

[1] Cass. sent. n. 17888/2021 del 07.05.2021.

[2] Art. 572 cod. pen..

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