Danno da diffusione mediatica.

La diffusione dei propri dati personali attraverso mezzi di comunicazione può determinare il diritto al risarcimento del danno da lesione della propria privacy.

Stai ascoltando un noto programma radiofonico. Ad un certo punto, ti rendi conto che hanno pronunciato il tuo nome, senza che tu avessi dato alcun consenso. Ritieni che il tuo diritto alla riservatezza sia stato leso e vuoi ottenere il risarcimento del danno.

Lo sviluppo dei social media e dei mezzi di comunicazione di massa può costituire una seria minaccia per la riservatezza e la privacy degli individui. In particolare, può accadere che persone che conducono una vita riservata si trovino, contro il loro volere, tirate in ballo nei predetti strumenti di comunicazione. In questi casi, si parla di danno da diffusione mediatica e la giurisprudenza, attraverso varie pronunce, ha stabilito quando questo pregiudizio può dare luogo ad un risarcimento. Ma andiamo per ordine.

Indice:

1 Cos’è il danno da diffusione mediatica?

2 Danno da diffusione mediatica: come si prova?

3 Danno da diffusione mediatica: quanto spetta?

Cos’è il danno da diffusione mediatica?

Molte persone desiderano avere, nella loro vita, un momento di notorietà e di visibilità mediatica. Per altri, invece, la privacy e la riservatezza sono valori fondamentali, non barattabili.

Resta il fatto che nessuno dovrebbe ricevere attenzioni mediatiche senza la sua espressa volontà. Ma cosa succede se, contro il suo volere, una Tv o una radio cita il nome di una persona? Di recente, è successo ad un professionista odontoiatra il cui nominativo è stato diffuso da due reti televisive, correlandolo alla sede del proprio studio.

Il dentista non aveva mai autorizzato le due emittenti a diffondere il proprio nome e, proprio per questo, il professionista ha convenuto le due tv in giudizio affinché fossero condannate a risarcirgli il danno determinato dall’illegittimo utilizzo dei suoi dati personali e dalla conseguente lesione della propria riservatezza.

I giudici di merito hanno accolto le doglianze del dentista e la Cassazione [1] ha confermato la correttezza del giudizio del tribunale e della Corte d’Appello.

Secondo gli Ermellini, infatti, occorre riconoscere, nella generalità delle persone fisiche, un intimo desiderio o necessità di riservatezza che costituisce il principale dei valori che le norme sulla privacy riconoscono ed intendono tutelare.

Tale desiderio di riservatezza può essere escluso solo se:

la persona acconsente alla diffusione mediatica dei propri dati personali;

la persona assume un comportamento rivelatore di una volontà di “esibizionismo”.

Nel caso di specie, una volta dimostrato che il professionista non aveva né dato il consenso alla pubblicazione del suo nome né dimostrato volontà esibizionistiche, la Cassazione ha confermato la sofferenza morale patita dall’individuo a causa della lesione della sua sfera privata e ha dunque confermato il suo diritto al risarcimento del danno.

Tale pregiudizio configura dunque il danno da diffusione mediatica.

Danno da diffusione mediatica: come si prova?

Una volta chiarito che, in astratto, la diffusione mediatica dei propri dati personali può legittimare una domanda di risarcimento del danno occorre chiedersi:

in che modo occorre provare il danno;

a quanto ammonta il danno.

Per quanto concerne il primo profilo, occorre ricordare che il pregiudizio determinato da trattamento dei dati personali, ai sensi del Codice della privacy [2], è assoggettato alla disciplina del Codice civile in materia di “esercizio di attività pericolose”.

La conseguenza di tale qualificazione è che il danneggiato deve limitarsi a provare il danno e il nesso di causalità con l’attività di trattamento dei dati. Spetta, invece, al convenuto la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare che si realizzasse il danno.

Danno da diffusione mediatica: quanto spetta?

Molto più problematica è la quantificazione del danno da diffusione mediatica. La Cassazione ha, infatti, ribadito che, anche se si assiste ad un alleggerimento dell’onere probatorio posto a carico del danneggiato, il danno da diffusione mediatica non è in re ipsa. Ciò significa che non basta provare l’illegittimo trattamento dei dati per avere, automaticamente, diritto al risarcimento del danno poiché occorre anche provare il quantum del pregiudizio subito.

Trattandosi di una sofferenza relativa alla sfera morale, la quantificazione del danno appare molto ardua e dovrà essere effettuata rimettendosi alla valutazione equitativa del giudice a cui il danneggiato potrà, tuttavia, fornire delle evidenze del pregiudizio subito, ad esempio, dimostrando di aver avuto conseguenze negative nella vita sociale, familiare e personale.

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