Responsabilità del chirurgo per operazione rischiosa.

Il medico deve scegliere la soluzione meno pericolosa per la salute, non quella più facile: prudenza impone di fare tutti gli esami necessari prima di operare.

Che fare quando all’esito di un intervento chirurgico sorge una complicanza che i medici avevano ritenuto imprevedibile e, invece, si verifica davvero e provoca lesioni nel paziente? È facile dire, col senno di poi: si denuncia il medico perché ha sbagliato. La responsabilità del chirurgo per operazione rischiosa ha invece un fondamento più complesso. Bisogna riportarsi al momento in cui la decisione di operare è stata presa e valutare, ora per allora, se, con esami più approfonditi, poteva essere scoperta qualche patologia tale da sconsigliare l’intervento chirurgico. Solo a quel punto si potrà affermare che, tenuto conto di quel fattore emerso, il quadro clinico sarebbe stato diverso e l’operazione sarebbe stata molto più pericolosa di quanto si potesse pensare.

Lo ha affermato in una nuova sentenza la Cassazione [1] sottolineando che il medico, prima di eseguire un’operazione, deve fare tutte le indagini possibili per arrivare a una diagnosi certa, in modo da restringere il quadro diagnostico. Infatti, i sintomi presentati dal paziente potrebbero essere compatibili con patologie diverse da quelle diagnosticate inizialmente, ma una radiografia o una risonanza magnetica potrebbero dirimere i dubbi. Inoltre, i sanitari curanti devono anche valutare se siano praticabili terapie farmacologiche, in alternativa all’intervento chirurgico. Quando si tratta della salute del paziente, si impone la prudenza, per evitare che un’operazione azzardata possa aggravare il quadro clinico e provocare lesioni.

Indice:

1 Il danno iatrogeno

2 L’errore del chirurgo

3 La responsabilità chirurgica per operazione rischiosa

4 La prudenza del chirurgo

5 Quando il chirurgo opera imprudentemente.

Il danno iatrogeno

Il danno iatrogeno è una lesione alla salute causata dalla responsabilità di un medico che ha agito con negligenza, imprudenza o imperizia, aggravando le conseguenze di una patologia già esistente. Questo fenomeno si verifica frequentemente quando il paziente, nel momento in cui viene sottoposto alle cure, presenta già una lesione per cause naturali, ad esempio perché soffre di malattie pregresse, e viene sottoposto ad un’operazione chirurgica che le aggrava oppure provoca complicanze inaspettate.

L’errore del chirurgo

Il danno iatrogeno può sorgere anche a seguito di operazioni “di routine”, cioè quelle che i medici considerano di facile esecuzione, se la patologia preesistente era nascosta. Non è l’intervento in sé a provocare le lesioni ma il quadro clinico in cui si innesta. Secondo la giurisprudenza di legittimità [2], il medico chirurgo è responsabile di queste conseguenze, pur se impreviste e nonostante la corretta effettuazione dell’intervento, se è mancato un approfondimento che sarebbe stato necessario.

Nella vicenda cui abbiamo accennato all’inizio, la Cassazione ha ritenuto che «in caso di previo espletamento di tutti gli esami preventivi del caso poteva essere ragionevolmente scoperta l’inesistenza dell’endometriosi, così evitando l’intervento chirurgico rischioso»: era stata praticata una isteroctomia dalla quale era derivata una lesione permanente dell’uretere.

La responsabilità chirurgica per operazione rischiosa

Il punto nodale per stabilire se vi è responsabilità chirurgica per operazione rischiosa, secondo la Cassazione, è la corretta valutazione del rischio da parte dei sanitari: la colpa può essere esclusa se risulta che essi hanno «effettivamente intrapreso il percorso diagnostico ideale, suggerito sulla base della migliore scienza ed esperienza in quel contesto storico».

Per capire se e quando il chirurgo può decidere di operare e quando, invece, dovrebbe astenersi dal farlo, bisogna dunque tenere conto anche dei «limiti scientifici» alla possibilità di scoprire con certezza determinate patologie per decidere se sia «condivisibile la scelta di operare ugualmente la paziente, nonostante l’incompletezza della diagnosi».

Nel caso clinico valutato dai giudici di piazza Cavour era stata omessa la risonanza magnetica, ritenuta «uno strumento diagnostico essenziale, idoneo a dare risposta positiva nel 60-80% dei casi»: in ciò è stata ravvisata la colpa del chirurgo che aveva operato la paziente nonostante il quadro diagnostico fosse incompleto.

La prudenza del chirurgo

La Suprema Corte sottolinea che «l’esercizio dell’attività medica impone a chi la pratica la massima prudenza, perizia e diligenza nello svolgimento degli atti medici che essa comporta». Questo dovere inizia proprio «nella effettuazione della diagnosi e nella individuazione della terapia, anche chirurgica, che si rende necessaria». Dunque, nel momento in cui si valuta se l’operazione deve essere fatta oppure no, il criterio principe da adottare è quello della massima prudenza, per salvaguardare la salute del paziente che potrebbe essere ulteriormente compromessa proprio da quell’intervento chirurgico.

A proposito di questa regola, gli Ermellini non hanno dubbi e si riportano ad un orientamento già espresso [3]: «Quando più alternative sono possibili, il medico deve improntare le proprie scelte alla massima prudenza, per evitare di mettere a rischio la salute e la vita del paziente».

Fino a quando il dubbio diagnostico non sia stato risolto e non vi sia incompatibilità tra accertamenti diagnostici e trattamenti chirurgici, «il medico che si trovi di fronte alla possibilità di diagnosi differenziale non deve accontentarsi del raggiunto convincimento di aver individuato la patologia esistente» quando non sia in grado di escludere quella alternativa. Perciò, quando si è di fronte a un bivio, con più opzioni possibili, «il medico, che si pone nella posizione di garante, è sempre tenuto ad adottare la soluzione di un procedimento diagnostico più rigoroso, al fine di scongiurare ogni rischio per la salute del paziente».

Quando il chirurgo opera imprudentemente

Posto che la Cassazione adotta la linea della prudenza – «nel senso della necessità del sanitario, posto di fronte all’alternativa di stabilire la terapia curativa, di preferire la soluzione meno pericolosa per la salute del paziente», rimarca il Collegio – il problema sta nello «stabilire se la scelta del sanitario di procedere ugualmente all’intervento, senza preventivamente espletare gli esami strumentali e senza somministrare la terapia farmacologica, debba essere considerata imprudente».

La Corte fornisce questa risposta: «è ravvisabile colpa nel comportamento del sanitario il quale non si astiene da un intervento che la comune cultura nel settore ritiene oltremodo rischioso e giudica utile solo in caso di una certezza di una determinata diagnosi che non era in condizione di avere». Quindi, se il chirurgo, tra due possibilità alternative «preferisce quella ritenuta più agevole ancorché maggiormente rischiosa e poco sicura», cioè sceglie l’alternativa più “facile”, pone in essere una «condotta imprudente» e censurabile: sarà responsabile per le lesioni arrecate al paziente.

Il Collegio chiarisce che comunque la colpa del medico chirurgo, nell’ipotesi di alternativa terapeutica, non può essere valutata con riguardo alla certezza del risultato, «bensì in relazione all’osservanza delle regole di condotta proprie della professione che sono finalizzate alla prevenzione del rischio» collegato all’opzione scelta.

Note:

[1] Cass. sent. n. 12968 del 2021.

[2] Cass. sent. n. 24074 del 13.10.2017.

[3] Cass. sent. n. 17067 del 26.02.2009.

Lascia un commento

Post Recenti

  • 0923 711979 - 347 0709326
  • info@avvocatogiuseppegandolfo.it
  • Via G. Garibaldi, 15 - Marsala

Seguimi su