CEDU – Compatibilità del sistema di prevenzione italiano con le fonti convenzionali e dell’UE (Cass. pen. 31549/19) MISURE DI PREVENZIONE PERSONALI E PATRIMONIALI

CEDU – Compatibilità del sistema di prevenzione italiano con le fonti convenzionali e dell’UE (Cass. pen. 31549/19)

MISURE DI PREVENZIONE PERSONALI E PATRIMONIALI

Ancora sulla legittimità del sistema di prevenzione italiano in relazione alle fonti convenzionali e dell’UE.

RIFERIMENTI NORMATIVI

Costituzione, art. 117;

Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), art. 17;

Convenzione EDU, art. 1 Protocollo addizionale n. 1;

  1. Lgs. n. 159 del 2011, artt. 16 e 24.

Cass. pen., Sezione II, sentenza n. 31549 del 6 giugno / 17 luglio 2019.

Con la sentenza segnalata, la II sezione penale della Corte di cassazione, chiamata sotto plurimi profili a valutare la compatibilità del sistema di prevenzione italiano con le fonti convenzionali e dell’UE, ha dichiarato manifestamente infondate tutte le questioni di legittimità costituzionale proposte, puntualizzando altresì i rapporti tra procedimento penale e di prevenzione.

  1. La II Sezione penale è stata chiamata ad esaminare, tra le altre, una «questione di legittimità costituzionale e pregiudiziale di legittimità comunitaria in relazione agli artt. 16 e 24 del D. Lgs. n. 159/2011 in relazione all’art. 117 Cost. (nella misura in cui richiama l’art. 1 del protocollo 1 CEDU) ed all’art. 17 della Carta dei Diritti Fondamentali UE ».

1.1. Secondo i ricorrenti, gli artt. 16 e 24 D. Lgs. n. 159 del 2011, che individuano i soggetti destinatari e le condizioni per l’adozione della confisca di prevenzione, sarebbero formulati con genericità ed onnicomprensività, risultando irrispettosi delle esigenze di determinatezza richieste dalla Corte EDU e tali da non consentire di salvaguardare il diritto di proprietà, tutelato dall’art. 17 CDFUE; l’asserita indeterminatezza della descrizione normativa dei presupposti di fatto rilevanti ai fini del giudizio prognostico sulla pericolosità sociale del soggetto violerebbe sia la Convenzione EDU che la CDFUE (il cui 17 prevede che la privazione dei beni può avvenire solo alle condizioni “previste dalla legge”) anche ove non si voglia riconoscere alle misure di prevenzione patrimoniali previste dall’art. 24 cit. natura di sanzione penale: peraltro, in successive memorie successive la confisca di prevenzione è stata configurata dai ricorrenti come una sorta di sanzione penale, il che comporterebbe evidenti conseguenze anche sul necessario grado di determinatezza della previsione normativa.

1.2. Il collegio ha dichiarato le dedotte questioni di legittimità costituzionale manifestamente infondate in riferimento a tutti i profili indicati dai ricorrenti.

Si è, in primo luogo, osservato che l’art. 17 della CDFUE (a norma del quale “Ogni persona ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquisito legalmente” e “Nessuna persona può essere privata della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge …”) enuncia principi coincidenti con quelli di cui all’art. 42 Cost. e conformi ai principi generali della Convenzione EDU, e comunque garantisce il diritto di godere della proprietà dei beni acquisiti “legalmente”, mentre quelli oggetto della confisca di prevenzione sono per definizione beni che, ricorrendo determinate condizioni, « si ha ragione di ritenere che siano stati acquisiti “illegalmente”»; inoltre, è certamente configurabile un “pubblico interesse” all’aggressione di patrimoni in disponibilità di soggetti ritenuti pericolosi, ove si accerti, sulla base di regole effettivamente “previste dalla legge”, che detti patrimoni costituiscano oggetto di illecita accumulazione.

D’altro canto, la stessa giurisprudenza costituzionale (Corte cost., sentenza n. 24 del 2019, le cui argomentazioni sono ampiamente riepilogate in motivazione dalla decisione che si segnala) ha recentemente confermato che il predetto interesse pubblico può essere riferito non soltanto ai casi di c.d. “pericolosità qualificata” (ed alla connessa esigenza di contrastare le attività della criminalità organizzata), ma anche in riferimento ai patrimoni dei soggetti cc.dd. “pericolosi generici”, ed ha anche ritenuto la determinatezza della normativa di settore (pure messa in discussione dai ricorrenti), atteso che l’art. 16 D. Lgs. n. 159 del 2011 richiama, quanto all’individuazione dei soggetti destinatari delle misure di prevenzione di carattere patrimoniale, i “soggetti di cui all’art. 4”, il quale a sua volta richiama non solo “i soggetti indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’art. 416-bis cod. pen. od indiziati di aver commesso altri reati comunque legati a vicende di criminalità organizzata” [art. 4, comma 1, lett. a) e b)], ma anche quelli “di cui all’art. 1, lett. a) e b)”, cioè i c.d. “pericolosi generici”.

In proposito, sono state ricordate:

– la declaratoria d’illegittimità costituzionale per difetto della necessaria determinatezza, non emendato dal diritto vivente, dell’art. 1, lett. a), D. Lgs. n. 159 del 2011, essendo la nozione di «traffici delittuosi» dichiaratamente non circoscritta a delitti produttivi di profitto, e non potendo, quindi, il riferimento ad essa legittimare, dal punto di vista costituzionale, misure ablative di beni posseduti dal soggetto che risulti avere commesso in passato tali delitti, difettando in tal caso il fondamento stesso di quella presunzione di ragionevole origine criminosa dei beni, costituente la ratio di tali misure;

– la contestuale declaratoria d’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 20 e 24 D. Lgs. n. 159 del 2011, sollevate con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Conv. EDU: anche per tale ragione, è stata dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale che sostanzialmente riproponeva interrogativi cui era già stata data compiuta risposta.

  1. Le difese denunciavano anche questione di legittimità costituzionale degli artt. 10, comma 3, e 27, comma 2, D. Lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui limitano alla sola violazione di legge la proponibilità del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti di confisca adottati nell’ambito dei procedimenti di prevenzione e nella parte in cui prevedono una contrazione del termine (dieci giorni) per proporre il ricorso per cassazione.

2.1. Il collegio ha dichiarato anche tali questioni di legittimità costituzionale manifestamente infondate (quella riguardante il secondo profilo era anche irrilevante ai fini della decisione).

La giurisprudenza costituzionale (Corte cost., sentenze n. 106 del 2015 e n. 321 del 2004) ha, in più occasioni, ritenuto immune da vizi di legittimità costituzionale la disciplina che limita la facoltà di proporre ricorso per cassazione alla sola denuncia delle violazioni di legge, per il rilievo che il confronto con il procedimento penale non può essere fatto, trattandosi « di settori direttamente non comparabili », ed anche perché si tratta di procedimenti dotati di proprie peculiarità, sia sul terreno processuale che quanto ai presupposti sostanziali; d’altra parte, « è giurisprudenza costante (…) che le forme di esercizio del diritto di difesa possano essere diversamente modulate in relazione alle caratteristiche di ciascun procedimento, allorché di tale diritto siano comunque assicurati lo scopo e la funzione (…) e, di conseguenza, non può ritenersi lesivo dei parametri evocati che i vizi della motivazione siano variamente considerati a seconda del tipo di decisione cui ineriscono »; d’altro canto, nel procedimento di prevenzione è prevista la possibilità di ricorrere alla Corte di appello anche per il merito e, dopo un secondo grado di merito, può ritenersi legittima la limitazione del sindacato di legittimità alla sola violazione di legge.

In conclusione, secondo il collegio, « alla luce di tale decisum e del fatto che sul punto il quadro normativo nazionale e comunitario non ha subito modifiche di rilievo, non si può (…) che ritenere la manifesta infondatezza della questione di incostituzionalità qui esaminata »; sempre in considerazione delle peculiarità che caratterizzano il procedimento di prevenzione rispetto al procedimento penale, è stata dichiarata manifestamente infondata la questione sollevata sotto il profilo ulteriore (peraltro motivatamente ritenuta anche priva di rilievo ai fini della decisione).

  1. La II Sezione penale è stata anche chiamata ad esaminare (su istanza di un ricorrente sottoposto a misura di prevenzione patrimoniale pur essendo incensurato – l’unico procedimento a suo carico era ancora pendente in primo grado – e nonostante il fatto che le decisioni della Giustizia Tributaria collegate alle vicende oggetto del procedimento di prevenzione instaurato in suo danno fossero state tutte a lui favorevoli) la tematica dei rapporti tra procedimento penale e procedimento di prevenzione.

Il collegio ha premesso che

« la necessità di “tassativizzare” il contenuto della suddetta normativa è sorta, in specie, dopo la sentenza della Grande Camera della Corte Edu pronunciata il 23 febbraio 2017, nel caso De Tommaso contro Italia, con la quale la Corte EDU ravvisò la violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 4 alla Convenzione EDU in quanto l’art. 1 del d.Lgs. cit. non soddisfa gli standard qualitativi in termini di precisione, determinatezza e prevedibilità che deve possedere ogni norma che interferisca con i diritti della persona, sicché la valutazione della pericolosità è rimessa alla discrezionalità del giudice senza che il cittadino possa, ex ante, conoscere quali comportamenti in concreto possano dar luogo alla misura (§§ 117-118 della motivazione)».

Ha, quindi, osservato che la disciplina dettata dagli artt. 29 D. Lgs. n. 159 del 2011 (rubricato “Indipendenza dall’esercizio dell’azione penale”) e 28 stesso D. Lgs. (che disciplina la revocazione della confisca), «consente di ribadire il risalente e mai smentito principio secondo il quale i procedimenti penali e di prevenzione sono assolutamente autonomi, proprio perché l’uno non è pregiudiziale all’altro », ricordando che, secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, le « misure di prevenzione previste dalle leggi italiane (…) non implicano un giudizio di colpevolezza, ma mirano a prevenire il compimento di atti criminali (…). Inoltre, la loro imposizione non dipende dalla preventiva pronuncia di una condanna per infrazione penale (…) esse non possono dunque essere paragonate ad una pena» (così Corte EDU, Sez. II, 17/05/2011, caso Capitani e Campanella c. Italia; nel medesimo senso, cfr. Corte cost. n. 24 del 2019, §§ 9.7. ss).

Diverso è anche l’onere probatorio che occorre, da una parte, per legittimare la condanna penale e, dall’altra, ai fini dell’accertamento della pericolosità sociale prodromico all’imposizione di una misura di prevenzione:

« in sede penale, l’imputato può essere condannato solo ove l’accusa abbia fornito un quadro probatorio formato da indizi “gravi, precisi e concordanti” (art. 192 cod. proc. pen.) che consenta di ritenere l’imputato colpevole “al di là di ogni ragionevole dubbio” (art. 533/1 cod. proc. pen.), tant’è che deve pronunciarsi assoluzione anche «quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussista, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile» (art. 530/2 cod. proc. pen.) ».

Diversamente, ai fini del giudizio di prevenzione non è richiesta una soglia così elevata per l’accertamento della pericolosità, tant’è che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità:

« a) «nel giudizio di prevenzione, proprio in ragione della sua autonomia dal processo penale, la prova indiretta o indiziaria non deve essere dotata dei caratteri prescritti dall’art. 192 cod. proc. pen., con la logica conseguenza che le chiamate in correità o in reità non devono essere necessariamente qualificate dai riscontri individualizzanti, ai fini dell’accertamento della pericolosità»: ex plurimis Sez. 6, n. 921/2014, dep. 2015, Rv 261842; Sez. 1, n. 6613/2008 Rv 239358;

  1. b) possono essere ritenuti sufficienti anche quegli indizi che, in sede penale, hanno portato all’assoluzione dell’imputato ex art. 530/2 cod. proc. pen.: ex plurimis, Sez. 6 n. 921/2014 cit.; Sez. 1, n. 806/1988 Rv 178117; Sez. 1, n. 2/1985, Rv 167762;
  2. c) è legittimo addurre, a sostegno del giudizio di pericolosità sociale del prevenuto, elementi risultanti dal giudizio penale di cognizione conclusosi con sentenza di patteggiamento che, quantunque non sia una decisione che accerta la responsabilità, non è, tuttavia, una conclusione assolutoria per l’imputato: Sez. 1, n. 2142/1998, Rv 211032».

Il collegio ha ricordato, in proposito, che nei medesimi termini, quanto alle differenze esistenti tra il giudizio penale e quello di prevenzione, si è espressa la Corte costituzionale con la sentenza n. 24 del 2019 (§ 12.1.):

« occorre subito eliminare ogni equivoca sovrapposizione tra il concetto di tassatività sostanziale, relativa al thema probandum, e quello di cosiddetta tassatività processuale, concernente il quomodo della prova. Mentre il primo attiene al rispetto del principio di legalità (…) inteso quale garanzia di precisione, determinatezza e prevedibilità degli elementi costitutivi della fattispecie legale che costituisce oggetto di prova, il secondo attiene invece alle modalità di accertamento probatorio in giudizio, ed è quindi riconducibile a differenti parametri costituzionali e convenzionali – tra cui, in particolare, il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. e il diritto a un “giusto processo” ai sensi, assieme, dell’art. 111 Cost. e dall’art. 6 CEDU – i quali, seppur di fondamentale importanza al fine di assicurare la legittimità costituzionale del sistema delle misure di prevenzione, non vengono in rilievo ai fini delle questioni di costituzionalità ora in esame. Non sono, dunque, conferenti in questa sede i pur significativi sforzi della giurisprudenza – nella perdurante e totale assenza, nella legislazione vigente, di indicazioni vincolanti in proposito per il giudice della prevenzione – di selezionare le tipologie di evidenze (genericamente indicate nelle disposizioni in questione quali «elementi di fatto») suscettibili di essere utilizzate come fonti di prova dei requisiti sostanziali delle “fattispecie di pericolosità generica” descritte dalle disposizioni in questa sede censurate: requisiti consistenti – con riferimento alle ipotesi di cui alla lettera a) dell’art. 1 del d.lgs. n. 159 del 2011 – nell’essere i soggetti proposti “abitualmente dediti a traffici delittuosi” e – con riferimento alla lettera b) – nel vivere essi “abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose” ».

D’altro canto, il collegio osserva che, sotto questo profilo, l’assetto del procedimento di prevenzione ha sempre “resistito”:

– sia a livello costituzionale, poiché la giurisprudenza costituzionale, tutte le volte che è stata investita di questioni inerenti alla costituzionalità “intrinseca” del sistema della prevenzione, sia personale che patrimoniale, le ha sempre respinte (cfr. Corte cost., nn. 11/1956, 27/1957, 23/1964, 368/1964, 721/1988, 465/1993, 487/1995, 335/1996, 21 e 216 del 2012 oltre che, da ultimo, n. 24/2019, che ha espressamente recepito l’interpretazione che la giurisprudenza di legittimità ha dato dell’aggettivo “delittuoso”, dell’avverbio “abitualmente”, del termine “traffici” delittuosi);

– sia a livello convenzionale (Corte EDU, Grande Camera, 22/02/1994, Raimondo; Sez. II, 15/06/1999, Prisco; Grande Camera, 06/04/2000, Labita; Sez. II, 05/07/2001, Arcuri; Sez. I, 04/09/2001, Riela; Sez. II, 05/01/2010, Bongiorno; Sez. II, 06/07/2011, Pozzi; Sez. II, 17/05/2011, Capitani e Campanella, cit.; sez. I, 02/03/2017, Talpis: tutti casi nei quali era naturalmente resistente sempre l’Italia).

Il collegio non ha mancato di evidenziare che normativa dell’UE è coerente con i suddetti principi di origine giurisprudenziale:

« l’art. 2 della Decisione Quadro 2005/212/GAI del Consiglio del 24 febbraio 2005, avente ad oggetto “la confisca di beni, strumenti e proventi di reato”, dispone che “1. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie per poter procedere alla confisca totale o parziale di strumenti o proventi di reati punibili con una pena privativa della libertà superiore ad un anno o di beni il cui valore corrisponda a tali proventi”: il che significa che la legislazione europea consente le misure ablative per beni provento da reato, senza, quindi, che sia necessario che il proposto abbia dovuto necessariamente subire una condanna a seguito del processo intentatogli. La suddetta norma è rimasta in vigore anche a seguito dell’emanazione della direttiva 2014/42/UE che, pur prevedendo la confisca a seguito di condanna (art. 4), da una parte, ex art. 14/1, non ha abrogato il cit. art. 2 (al contrario dell’art. 3) e, dall’altra, ex art. 1 (rubricato come “Oggetto” della direttiva), ha chiarito che “1. La presente direttiva stabilisce norme minime relative al congelamento di beni, in vista di un’eventuale conseguente confisca, e alla confisca di beni in materia penale. 2. La presente direttiva non pregiudica le procedure che gli Stati membri possono utilizzare per confiscare i beni in questione”: il che è come dire che, siccome le norme contenute nella direttiva costituiscono un minimum al quale gli Stati membri devono attenersi, i suddetti Stati (e, quindi, l’Italia) hanno la facoltà di ricorrere a procedure (diverse) per confiscare i beni “in materia penale” nel senso che possono stabilire la confisca anche se, a monte, non vi sia alcuna condanna penale, come, appunto, è previsto nel nostrano sistema delle misure di prevenzione” ».

Pur se la genericità del sintagma “attività delittuose” potrebbe far sorgere dubbi sul possibile difetto di tassatività della relativa previsione e, quindi, sulla “cattiva qualità” di essa, già evidenziata dalla Corte EDU, Grande Camera, 23/02/2017, caso De Tommaso c. Italia, la giurisprudenza di legittimità, anche per impulso di quella costituzionale, era già addivenuta ad un’interpretazione restrittiva e tassativizzante del suddetto sintagma, affermando che esso dev’essere pur sempre interpretato in uno all’ulteriore sintagma “elementi di fatto”:

« si può, quindi, ritenere (…) che gli “elementi di fatto” addebitati al proposto devono avere un disvalore penale nel senso che quei fatti, per essere posti a fondamento di una pronuncia di pericolosità sociale, devono poter essere sussunti in fattispecie penali produttive di reddito illecito. Ed è proprio alla stregua di tale interpretazione tassativizzante, che, da ultimo, la Corte cost., con la sentenza n. 24 del 2019, ha ritenuto la legittimità costituzione dell’art. 1/1 lett. b) D.Lgs. cit. in quanto “espressiva della necessità di predeterminazione non tanto di singoli ‘titoli’ di reato, quanto di specifiche ‘categorie’ di reato. Tale interpretazione della fattispecie permette di ritenere soddisfatta l’esigenza (…) di individuazione dei «tipi di comportamento» («types of behaviour») assunti a presupposto della misura. Le “categorie di delitto” che possono essere assunte a presupposto della misura sono in effetti suscettibili di trovare concretizzazione nel caso di specie esaminato dal giudice in virtù del triplice requisito – da provarsi sulla base di precisi “elementi di fatto”, di cui il tribunale dovrà dare conto puntualmente nella motivazione (art. 13, secondo comma, Cost.) – per cui deve trattarsi di

  1. a) delitti commessi abitualmente (e dunque in un significativo arco temporale) dal soggetto;
  2. b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui;
  3. c) i quali a loro volta costituiscano – o abbiano costituito in una determinata epoca – l’unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito ».
  4. La decisione segnalata, dopo aver conclusivamente ribadito l’autonomia tra il procedimento penale e quello di prevenzione, ha valutato se e in che termini il processo penale possa interferire con quello di prevenzione, enucleando le seguenti fattispecie:
  5. a) materiale probatorio prodotto nell’ambito del giudizio di prevenzione, derivante da processi penali già conclusi;
  6. b) materiale probatorio acquisito dal Pubblico Ministero a seguito di indagini, e:

– non sottoposto al vaglio del giudice penale;

– sottoposto al vaglio di un giudizio penale in corso.

Le conseguenti valutazioni, pur di grande rilievo applicativo, non riguardano temi di rilievo sovranazionale.

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